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FLAVOURS
II Beta. Odore d'inverno
#18. The smell of hospitals in winter

Se c'era qualcosa che aveva sempre odiato, erano gli ospedali.

Non li odiava per l'idea di malattia, di disagio, di morte che si respirava tra le loro mura. A quelle era stato abituato fin da piccolo, con tutti gli anni di allenamento a cui si era sottoposto, con tutte le battaglie che aveva sostenuto spesso al limite delle sue capacità. Non aveva mai avuto paura di malattie e morte, le aveva sempre considerate come qualcosa che prima o poi sarebbe capitato comunque. Non aveva senso averne paura, semplicemente, non sarebbe servito ad allontanarle, ad esorcizzarle. Forse era un buon guerriero per quel motivo; perché non aveva paura di morire, non per se stesso.

In fin dei conti era complicato averne paura quando si rischiava la propria vita ogni giorno. No, non odiava gli ospedali per quel naturale terrore.

Li odiava per il loro odore, per il loro colore.

Perché erano bianchi, asettici, impregnati di quell'odore di disinfettante che lui non sopportava, freddi, e lo infastidiva anche il camice verde che aveva addosso qualche medico o infermiere per 'tranquillizzare' i pazienti. Tutte balle, lui non stava comunque a suo agio in quei posti, in quegli odori...era come se lo infastidisse l'idea di persone che si affannavano per salvare la vita di qualcuno, soprattutto se quel qualcuno soffriva ancora di più per quel loro intestardirsi. Era l'idea che trasformassero qualcosa di naturale in qualcosa di teatrale, grottesco...terrificante; era come se negli ospedali la morte, la malattia non fossero più qualcosa che faceva parte dell'essere umano, come se non rappresentassero più un singolo attimo in mezzo a tanti ben più felici. Era come se lì dentro non potessero esistere le morti pacifiche a cui lui aveva spesso assistito, sui campi di battaglia. Negli ospedali, la morte gli era sempre sembrata sbagliata, troppo inumana, anche quando era più innaturale la vita. E se poi aggiungeva anche che era follemente preoccupato per lei e non era sicuro di arrivare tutto intero, soprattutto se continuava a guidare così, il quadro era completo.

Sperava solo che non fosse un altro falso allarme, e che poi sarebbero passati veloci i giorni che lei avrebbe dovuto trascorrere in ospedale. Lo metteva a disagio anche solo l'idea di andarci per un'ora, per la visita; lo metteva a disagio pensare di stare anche un solo minuto tra quegli odori che odiava e che gli mettevano i brividi. Finalmente era arrivato; non l'avrebbe mai detto ma era riuscito ad arrivare sano e salvo e a parcheggiare quasi bene, se non fosse stato per la mano che gli tremava. Vincendo il fastidio che già lo pervadeva e che non gli era mai riuscito di eliminare del tutto, entrò nel palazzo e si fermò velocemente alla portineria a chiedere dove avessero portato la sua compagna; e poi iniziò la lunga corsa su per le scale, fino ad incontrare il medico che l'aveva seguita per tutti quei mesi che si complimentava con lui e con una pacca sulla spalla gli indicava dove poterla trovare.

Attraversò il corridoio in fretta, un po' per il bisogno di vederla subito e un po' per sfuggire a quella strana sensazione che già gli aveva preso lo stomaco; per quanto quel reparto fosse un po' meno rigido degli altri, e qualche infermiera avesse decorato un abete là di fronte alla finestra, rimaneva pur sempre un ospedale ed era sempre più a disagio ogni minuto che passava -cominciava a credere di avere una sorta di fobia per quelle mura bianche che sapevano intristirlo come null'altro. E poi era quasi Natale, caspita, non avrebbe dovuto essere lì a combattere con paure mai confessate...avrebbe dovuto essere in giro a cercare un regalo per lei, accompagnarla a cercare quelli per i loro amici, avrebbe dovuto essere ovunque, tranne che lì.

La stanza di lei era immersa nel buio della sera; aprendo la porta, riconobbe la sua forma semiseduta sul letto e abbandonata contro i cuscini, e il profilo del suo viso contro la luce dei lampioni esterni proveniente dalla finestra. Gli parve di vederla sorridere, china sul lettino accanto al suo, e quell'impressione, unita al fruscio delle coperte in cui era avvolta, sembrò ridargli per un momento la tranquillità che aveva perso nei corridoi, solo per sostituirla subito dopo con la sua solita apprensione da innamorato.

"Hey," mormorò soltanto, quasi dispiaciuto all'idea di turbare la serenità che vedeva in lei; la sentì voltarsi, nel buio, cercare di accendere la lampada e poco dopo un "hey" di risposta, appena mormorato e stanco, lo invitò ad avvicinarsi. Era incredibile come, pur attraverso l'espressione completamente esausta che aveva sul viso e che ora riusciva a vedere nella luce fioca, lei riuscisse a trasmettergli la sua gioia e la sua serenità; gli parve impossibile udirla scherzare, quando passandosi una mano tra i capelli lei continuò, mentre lui si sfilava il cappotto e si sedeva su una sedia vicino a lei, "tre falsi allarmi e ha deciso di nascere proprio oggi, che tu non c'eri..."

"Non importa," mormorò lui, prendendole una mano e allungandosi a baciarle la testa, "state bene...?"

"Mmh, ha fatto già i primi capricci, non voleva nascere," sorrise lei, "ma stiamo bene. Non vuoi vederlo?"

Non ebbe il tempo di dire nulla, anche inventarsi una scusa del tipo che lei e il piccolo avevano bisogno di dormire e che a lui bastava sapere che stessero bene; non l'avrebbe mai ammesso, ma l'idea di incontrare il loro bambino -l'esserino che lo avrebbe amato per il semplice fatto di esistere, e che lui avrebbe amato senza nemmeno rendersene conto, lo spaventava a morte. Non era soltanto il fatto di essere giovani, di non avere piani per il futuro che non fossero quelli di stare insieme, il senso di responsabilità che si era sentito dentro quando lei gli aveva comunicato di aspettare un figlio; era quella sensazione indefinibile di amore che gli si era aggrappato alle viscere alla sola idea che ci fosse un esserino nel grembo di lei, che andava protetto, e amato, e quel terrore inestirpabile che gli aveva fatto tremare le mani fino a quando non aveva stretto quella di lei e aveva sentito il respiro del loro bambino nel silenzio della stanza.

Non era tanto l'idea di amare il neonato che lei adesso teneva tra le braccia, era l'idea di essere amato da lui -da loro, come se fosse quanto di più naturale si potesse fare al mondo. Proprio lui, che non aveva mai pensato di aver nulla che potesse essere amato. Proprio lui, che per anni non aveva nemmeno preso in considerazione la possibilità di trovarsi, come in quel momento, in un ospedale, seduto accanto alla donna che amava e al figlio che era appena venuto al mondo.

Non aveva mai creduto che in un bambino potesse racchiudersi tutta quell'esplosione di emozioni.

Aveva osservato in silenzio ogni movimento, il chinarsi di lei sulla culla, il sistemarsi quel fagottino azzurro tra le braccia, lo scostare un pochino la coperta per mostrargli il viso del loro bambino; e si pentì di aver anche solo pensato che poteva vederlo un'altra volta, non ci sarebbe stato mai un momento più perfetto di quello. Sembrava così fragile, tra le braccia di Rinoa; sembrava così dolce il suo visino, così tenero il suo corpicino esausto e addormentato, ed era così profumato da fargli dimenticare persino dove si trovava. Allungò una mano a fargli una carezza delicata, per non disturbare il suo riposo; lei parve accorgersi della sua emozione e commozione, e gli chiese semplicemente, "vuoi tenerlo?"

Non si rese nemmeno conto d'aver annuito, e poco dopo stringeva il suo bambino al petto, cullandolo appena e osservandolo minuziosamente -non avrebbe mai pensato che gli avrebbe contato persino le dita delle mani e dei piedi, o che avrebbe affondato il viso ad aspirare il profumo del borotalco di cui lo avevano cosparso dopo averlo lavato. Non aveva mai immaginato che quel momento sarebbe stato così...così intenso, così ricco, così pieno. Gli sembrava di non aver aspettato altro che quel momento, la sensazione che il suo gomito fosse fatto apposta per fare da cuscino alla testa del piccolo, e quella più semplice del mondo, che non avrebbe saputo spiegare mai: l'aveva visto, l'aveva preso in braccio, e l'aveva amato.

Non c'era altro da aggiungere.

E non c'era nulla da spiegare, perché non si poteva dire dell'indicibile tenerezza che l'aveva preso quando il piccolo aveva sbadigliato, non si poteva dire della voglia di proteggerlo da qualsiasi cosa, tanto era fragile, non si poteva dire della sensazione di averlo sempre amato, anche quando non esisteva se non nel grembo di lei -anche quando non esisteva se non come semplice idea, accarezzata con la dolcezza dei sogni.

Non poteva spiegare l'incredibile sensazione di essere papà -la sensazione che fosse quello che aveva sempre voluto; non si poteva spiegare come quel momento fosse in grado di annullare tutto il resto, la sua paura degli ospedali, il suo fastidio per quelle mura troppo bianche, asettiche e mute, quando sapeva che casa sua sapeva parlare di ogni attimo felice vissuto al suo interno. E lo stringere quel neonato a sé, facendo attenzione a non svegliarlo, sapeva fargli dimenticare che in quella stanza c'era anche lei, che lo stava guardando sorridendo della reazione inaspettata del suo compagno; abbracciare suo figlio pareva liberare la sua mente da qualsiasi preoccupazione, qualsiasi pensiero che non fosse quello di aver voglia di gridare al mondo che quell'esserino addormentato e ancora un po' arrossato per la fatica di nascere era suo -era loro.

Probabilmente se si fosse visto dall'esterno non avrebbe creduto ai suoi occhi.

Ma lui non aveva mai incontrato un neonato, né aveva mai desiderato prenderlo in braccio; eppure adesso arrivava suo figlio e lui si scioglieva come neve al sole e continuava ad accarezzarlo e a baciarlo -perché non poteva portarsi a casa la sua famiglia quel giorno stesso? Non voleva passare la notte da solo, mentre lei era in un ospedale e il suo bambino in una culla qualsiasi. Dovevano essere entrambi con lui, protetti e amati da lui, nel caldo del loro nido, nella gioia dei loro addobbi natalizi e non in quella stanza un po' buia e un po' fredda.

E pensare che solo poco prima aveva detestato l'idea di dover entrare in quell'ospedale, e ora invece gli sembrava di non volersene andare più via. Voleva passare tutto il tempo che gli era concesso con lei e con il loro bambino, osservarlo dormire mentre Rinoa si appoggiava un po' contro la sua spalla, baciargli la fronte, guardarlo aprire gli occhi e piangere la sua fame, e poi guardare lei, con quell'espressione così dolce da far intenerire persino lui, che si riprendeva il piccolo tra le braccia per allattarlo sotto al suo sguardo incantato d'amore e lucido di qualche lacrima che non osava scendere.

Alzò gli occhi su di lei solo quando il piccolo iniziò a succhiare il suo pasto; non avrebbe saputo dire esattamente cosa lo avesse preso, ma vederla così felice, così serena, anche se esausta nel corpo e nell'anima da quell'avvenimento, sembrava avere su di lui effetti strani, sembrava risucchiargli via la ragione e si alzò dalla sedia per sedersi sul letto, accanto a lei, circondandole le spalle con un braccio e permettendole di affondare il viso nell'incavo del suo collo, mentre lui continuava a guardare le due persone che amava di più al mondo senza riuscire davvero a credere che fosse successo. Lui e Rinoa erano una cosa che era riuscito ad accettare, tempo addietro; non se ne era nemmeno reso conto, ma ad un certo punto aveva iniziato a considerarsi legato a lei, nonostante nessuno dei due avesse mai chiesto apertamente all'altro di chiarire la loro relazione. E poi man mano le cose si erano ingrandite, e a lui era sembrato naturale, sempre di più, tornare al suo appartamento la sera e trovare Rinoa che lo aspettava. Amare Rinoa era stato qualcosa che lui aveva scelto di fare. E l'aveva scelto quando aveva deciso di andarla a riprendere ad Esthar, lo sceglieva ogni giorno, come lo sceglieva lei, quando si svegliava il mattino e stringendola a sé pensava che avrebbe fatto tutto il necessario perché quella storia funzionasse.

Perché quell'amore vivesse.

E adesso avevano un figlio, che si addormentava poppando, e che Rinoa gli chiedeva di riporre nella culla mentre lei si rivestiva. E lui sarebbe stato ore a guardarlo dormire pacifico, mentre lei gli si abbandonava contro il petto lamentandosi di non riuscire a prender sonno. Sarebbe stato ore ad accarezzarle la schiena, rubando uno sguardo ogni tanto in direzione della finestra per accorgersi che stava nevicando; sarebbe stato per ore lì con loro, semplicemente godendosi la loro silenziosa compagnia, anche se si trattava di stare in una stanza d'ospedale. Perché quell'amore non l'aveva scelto, se l'era trovato dentro già bell'e sbocciato e lui non poteva fare altro che accettarlo.

Come poteva un bambino così piccolo, indifeso e bisognoso di cure essere in grado di farsi amare fino a quel punto?

Indicandole con un dito la neve che cadeva a fiocchi fitti, mormorò stringendosi Rinoa al petto, "vi vorrei tanto a casa..."

Lei mugolò un sorriso, affondando un po' il viso contro al suo petto; tracciandogli qualche bacio sul collo, come coccole riparatrici alla delusione che doveva dargli, rispose, "staremo qui solo stanotte, per essere sicuri che sia tutto a posto. Domani pomeriggio al più tardi sarò a casa...non ho bisogno di stare qui. E se il bambino sta bene, abbiamo solo bisogno di te..."

Non poté far altro che chinarsi e baciarla, un ringraziamento sempre troppo piccolo per tutto quello che lei gli stava dando -il loro bambino, la loro casa, la loro vita, e quella sensazione di esserle sempre e comunque indispensabile, di essere quanto di più importante lei potesse desiderare e avere, di essere tutto ciò di cui poteva aver bisogno. Era rassicurante sapere che dipendeva da lui almeno quanto lui dipendeva da lei -in una maniera estremamente contorta, era qualcosa di terrificante e di confortante. Il fatto che desiderasse le stesse cose, che si commuovesse degli stessi avvenimenti, che fosse sconvolta dalle sue stesse sensazioni...era ciò che lo rendeva vivo, ecco. Era ciò che sapeva rendere la loro coppia una famiglia. Era ciò che aveva permesso al loro bambino di arrivare sconvolgendogli la vita, costringendolo ad amarlo senza che lui potesse fare nulla per impedirlo...e sapeva che sarebbero bastati pochi mesi, per vedere negli occhi del piccolo l'amore incondizionato che lui cercava da una vita. Suo figlio l'avrebbe amato sempre, comunque.

Forse era questo che lo smuoveva tanto dalla sua facciata di granitica compostezza, e gli riempiva gli occhi di lacrime e la bocca di risate.

Era così perso in quel turbine di sensazioni e così commosso dall'idea di avere tutto quello, che non sentì nemmeno l'infermiera che apriva la porta annunciando la cena e la fine dell'orario di visita.

Si separò da lei a malincuore, rubandole una carezza e un bacio veloce e fermandosi di fronte alla culla per un'altra coccola al piccolo, sotto agli occhi materni e innamorati di lei. E poi cercò di perdere il più tempo possibile, infilando il cappotto, facendo raccomandazioni inutili, regalando altri baci e altre carezze prima di chiudersi la porta alle spalle e riattraversare di nuovo il corridoio che prima gli aveva messo tanto disagio addosso.

Stranamente, anche quell'abete di fronte alla finestra non gli metteva più così tristezza.

*~*~*~*~*

Non era più abituato ad aprire la porta e trovare l'appartamento immerso nel buio.

A pensarci bene, non ricordava nemmeno l'ultima volta che era entrato in quella casa e aveva trovato le luci spente; per quanto andasse indietro nel tempo, con la memoria, ricordava sempre e solo di entrare in una appartamento caldo e luminoso, con Rinoa e la loro cagnolina che gli andavano incontro per salutarlo.

E adesso invece doveva far da solo -e la cosa che più gli metteva tristezza era il dover preparare la cena senza lei accanto. Era troppo abituato a tutto quello, lei gli si era radicata dentro così profondamente...e lo spaventava e al tempo stesso lo rincuorava l'idea che le bastasse stare lontana per due giorni perché lui ne sentisse una mancanza così acuta. Ed era soprattutto l'idea che lei mancasse in ogni più piccola cosa, dal sistemargli l'accappatoio pulito sul termosifone mentre si faceva la doccia ad aiutarlo a preparare la cena, dallo stare tranquilli sul divano a guardare un film al passare la serata in un bar a chiacchierare, era l'idea che lei comunque sarebbe tornata ad essere in tutte quelle piccole cose portandosi il loro bambino che lo atterriva e lo faceva sorridere.

Già, il loro bambino.

Gli sembrava di avere ancora addosso il suo profumo di pulito; persino mentre si infilava sotto la doccia, per lavarsi via l'odore di ospedale che era certo d'avere addosso, gli sembrava di sentire quel profumo di borotalco, di latte...di famiglia che aveva il suo bambino. Era stato strano, in effetti, abbassarsi a sfiorarlo con la fronte ed trovarsi le narici invase dalla sua fragranza; era come se il bimbo fosse già entrato in tutto e per tutto nel loro mondo, con i suoi rumori, il suo profumo naturale, i colori ancora incerti degli occhi e dei capelli.

Era un'idea che gli piaceva, quella del profumo del suo bambino che fosse anche il profumo della loro famiglia.

E gli sembrava che fosse un profumo che poteva ritrovare ovunque, nel sapone con cui si lavava, nell'accappatoio pulito con cui si asciugava, persino in cucina e in salotto, dove aveva preparato e consumato il suo pasto veloce nell'attesa che quella giornata così ricca finisse e gli portasse il pomeriggio in cui lei sarebbe tornata a casa. Credeva che avrebbe dormito come un ghiro tutta la notte, tanto quello che era successo l'aveva sconvolto; il sapere che lei aveva partorito mentre lui era a due ore di macchina da loro, la corsa all'ospedale, l'emozione di incontrare l'esserino che da quel giorno in poi avrebbe segnato le loro vite...

Eppure più ci pensava, e meno aveva importanza. Avrebbe sconvolto le loro vite, certo, avere un figlio non era sicuramente un gioco e sia lui che Rinoa, vista l'infanzia che avevano vissuto, lo sapevano benissimo. Avevano deciso di dare al loro bambino il massimo che potessero dargli, avevano lasciato il Garden senza rimpianti, con la consapevolezza che non avrebbero voluto crescere un figlio in quel posto; avevano deciso di essere il meglio e la cosa gli metteva paura, come poteva, lui, essere il miglior padre possibile?

E poi ricordava le parole di Rinoa, bastava amarlo, il loro bambino. E lui lo amava già e sì, avrebbe sconvolto le loro vite, ma le avrebbe anche riempite di gioia, d'amore...si sentiva felice al solo pensiero.

Erano già le undici e mezza quando decise che tanto valeva andarsene a letto, pensare sul divano con gli occhi fissi su una televisione accesa ma non guardata sembrava stancarlo anche di più. Di nuovo l'appartamento piombava nel più assoluto silenzio; qualche minuto per portare fuori Angelo e poi la cagnolina si sarebbe infilata nella sua cuccia e lui nel suo letto, troppo grande senza di lei. Gli era sembrato, in quei mesi, che dormire insieme a lei con una mano sul suo pancione potesse rilassarlo come mai gli era capitato; e ora doveva abituarsi alla sensazione che quel pancione non ci sarebbe stato più -ma quello che avrebbe avuto al suo posto valeva sicuramente la pena di perdere un po' di rilassatezza e tranquillità. Persino i soliti gesti di routine iniziavano a sembrargli diversi; chiudere la porta, preparare la legna per la mattina, infilarsi nel letto caldo...gli sembrava che il profumo del suo bambino lo seguisse anche lì.

Com'era possibile che riuscisse già a riconoscere la fragranza di suo figlio, dopo averla sentita solo per qualche istante? Com'era possibile che potesse sentirla perfino dove il suo bimbo non era ancora stato?

Non era certo stato un odore così forte da coprire quello dell'ospedale...eppure...eppure sì, non riusciva più a ricordare l'odore tipico dell'ospedale. Ricordava solo quello del suo bambino.

Quell'esserino aveva già fatto un miracolo, riuscì a pensare poco prima di addormentarsi...

*~*~*~*~*

Alla fine erano passati due giorni.

Sapeva che non avrebbe dovuto crederle, quando gli aveva detto che sarebbe stata a casa l'indomani; eppure cullarsi in quell'illusione lo aveva aiutato ad addormentarsi più serenamente quella sera e non aveva avuto il coraggio di arrabbiarsi con lei, quando gli aveva invece detto che sarebbe rimasta ancora in ospedale, per evitare che succedesse qualcosa al piccolo.

E quindi aveva continuato i viaggi verso l'ospedale, aveva continuato ad attraversare gli odiosi corridoi che la presenza di Rinoa e del loro bambino non sapevano certo rallegrare così tanto, si era obbligato ad aspirarne gli odori inesistenti...ed ora finalmente andava a riprendersi la sua famiglia, in tempo per riportarla a casa per le feste di Natale, anche se la sua pazienza aveva raggiunto il limite. Non era stato soltanto il fatto che non amava andarla a trovare lì e rimanere con loro solo per qualche minuto; era il fatto di voler iniziare una vita nuova, di voler tornare, la sera, da Rinoa e dal suo piccolino, di andare a prendere il bimbo la domenica mattina e portarlo nel letto, tra lui e Rinoa, per coccolarlo, e osservarne tutte le espressioni, tutti i progressi, e dirsi che valeva la pena farsi sconvolgere la vita da un esserino tanto piccolo quanto amato.

E adesso, finalmente, mancava così poco al momento in cui tutto quello si sarebbe realizzato...

Aprì la porta della stanza in cui si trovava lei per trovarla mentre allattava il loro bambino; la sua espressione era sempre così dolce e felice, che gli parve ancora più bella quando si voltò a guardarlo e gli disse, ridendo, "scusami, ha deciso di aver fame proprio adesso..."

Lui sorrise, avvicinandosi per baciarle la testa e infilare un dito nella manina stretta a pugno di suo figlio; "non importa, aspetteremo qualche minuto...copritevi bene, fuori fa freddissimo sai?"

"Mmh, allora è il giorno giusto per tornare a casa..."

Lui si chinò di nuovo a baciarle la testa, controllando nel frattempo che lei avesse preso tutto; l'ultima cosa che voleva era tornare di nuovo lì dentro, perché gli rimaneva sempre appiccicata addosso quella sensazione di disagio, anche se attenuata dagli avvenimenti recenti. Era certo che una volta che la sua compagna e suo figlio fossero stati a casa, al sicuro, avrebbe ricominciato a trovare gli ospedali odiosi, troppo bianchi e troppo pieni di quel fastidioso odore d'asettico che in quei giorni era diventato diverso alle sue narici; forse era semplicemente un effetto della neve fuori che riusciva sempre a mettergli allegria, forse era l'effetto del profumo di latte e borotalco del suo bambino che gli sembrava aleggiare ovunque, persino nel letto in cui non era ancora stato. Tutto sembrava a posto, comunque; i vestiti di lei ordinati nella valigia, le cose del bambino pronte e anche il piccolo ostacolo della poppata pareva essersi tolto di mezzo -suo figlio dormiva ora pacificamente tra le braccia di Rinoa, col pancino pieno e un'espressione beata e tranquilla sul viso.

Con un sorriso che tradiva il suo sollievo e la sua fretta, allungò le braccia per prendere il bambino, mentre lei si richiudeva la camicia e il golfino, e si infilava sciarpa e cappotto per affrontare il gelo, fuori; e finalmente, dopo aver avvolto il piccolo in una coperta più pesante, furono pronti per lasciare quel posto da cui avrebbe voluto fuggire. Persino il tragitto in macchina verso casa gli parve infinitamente lungo; avrebbe voluto arrivare il più presto possibile, e insieme non osava accelerare per non disturbare il riposo del bimbo. Era solo poco più di una mezz'ora di strada, ma sembrava che fossero passati secoli quando finalmente parcheggiò la macchina nel cortile della loro casa e scese per aiutare Rinoa a portare dentro le loro cose mentre lei cercava di riparare il piccolo il più possibile dal vento gelido che si era improvvisamente alzato.

Solo quando chiuse la porta alle loro spalle, e osservando l'espressione sorpresa ed estasiata di lei alla vista dell'abete che aveva decorato e del camino acceso che scoppiettava nell'angolo, di fronte alla sedia a dondolo che avevano comprato proprio per lei, si sentì finalmente tranquillo. Adesso erano a casa, avrebbero passato le feste tutti insieme e con gli amici che si erano dichiarati fin da subito gli zii del loro bambino. Adesso la stanza profumava di legna che bruciava, di caldo, di luci colorate che si accendevano di fronte alla finestra, in contrasto con la neve bianca che tornava a scendere, là fuori.

Adesso la casa profumava di famiglia.

Si rese conto lui stesso d'essere più affettuoso del solito con lei, mentre la accompagnava nella stanza del piccolo per sistemarlo nella culla e si preoccupava di sfilarle il cappotto e lasciare che si infilasse vestiti più comodi. Eppure non riusciva a comportarsi diversamente; gli pareva naturale iniziare a mettere al loro posto tutte le cose che avevano dovuto portare all'ospedale, e tutti i prodotti per il bambino che avevano ricevuto in dono, gli pareva naturale avvicinarsi alla culla, ogni tanto, per fare una carezza sulla testolina di suo figlio, gli pareva naturale che lei lo trovasse lì davanti in contemplazione e che gli si avvicinasse abbracciandolo per chiedergli, "non è un bambino bellissimo?"

Circondandole la vita con un braccio, lui le mormorò in un bacio a fior di labbra, "il più bello del mondo...grazie, Rinoa..."

E ancora una volta si stupì di quanto fossero intimamente uniti, quando lei rispose con un sorriso contro le sue labbra, "grazie anche a te..."

"...parliamo di là, vuoi? Non lo disturbiamo, così..."

Seguito docilmente da lei, la guidò tenendola per mano nel salotto, facendola accomodare sul divano mentre lui metteva altra legna ad ardere e si sedeva accanto a lei abbracciandola e baciandola. Quanto gli era mancata, in quei giorni; non avrebbe mai pensato che svegliarsi senza averla accanto avrebbe avuto un sapore diverso, né che non trovarla la sera quando rincasava sarebbe stato così triste. Ora che era lì con lui, e poteva tenersela accanto e godersi la sua compagnia, anche senza dire nulla, semplicemente pensando, riusciva ad apprezzare ancora di più quello che gli era mancato.

Accidenti a quell'ospedale che gliel'aveva portata via, foss'anche per partorire il bimbo che ora dormiva nella stanza accanto; gli sembrava d'aver perso chissà quanto tempo, chissà quante cose per un posto che per di più odiava già. Anche il solo chiacchierare del più e del meno insieme a lei, protetti dal freddo e nel buio della stanza che si illuminava solo degli addobbi natalizi, gli pareva fondamentale; anche accarezzarle la schiena mentre lei gli appoggiava la testa sul petto con un sospiro felice gli sembrava irrinunciabile. E come aveva potuto, invece, perdere quei pochi giorni in cui quattro stupide mura troppo bianche e che odoravano troppo di disinfettante l'avevano tenuta lontana da lui?

Non avrebbe mai saputo dire quanto tempo erano rimasti così, prima che lei tornasse a prendere il bambino, allattarlo, cambiarlo e poi lasciarlo dormire sul divano, con loro, per contemplarlo insieme per la prima volta; sapeva solo che avrebbe voluto che quelle prime ore trascorse con le due persone che amava di più al mondo non finissero mai, per la serenità, la tranquillità e la gioia che sapevano donargli. Solo molti minuti dopo, quando osservando Rinoa la vide stanca e assonnata, riuscì a separarsi da lei per lasciarla dormire, promettendo di occuparsi lui del piccolo; rimase a lungo con il bimbo addormentato in braccio, osservando un po' le sue espressioni nel sonno e un po' la neve che cadeva incessante fuori dalla finestra.

Aveva ragione Rinoa, era un bambino davvero bellissimo, paffuto, con le labbra rosse di sua madre e gli occhi ancora blu tipici dei neonati. Ed era così...espressivo, anche se piccolo, gli pareva di riconoscere già qualche somiglianza con se stesso o con lei, e gli sembrava che avergli dato gli altisonanti nomi dei suoi nonni stridesse con l'esserino fragile che stringeva tra le braccia. Era così morbido, così liscio, così...ladro dei suoi baci e delle sue coccole, tanto era adorabile. E poi aveva quel profumo, un misto di latte, di borotalco, di olio per bambini che trovava delizioso e che non avrebbe mai voluto smettere di annusare.

Quell'esserino era in grado di farlo sorridere senza motivo, proprio come sua madre.

Tutto quello che successe dopo fu come annebbiato dalle sensazioni da cui era pervaso; gli amici che venivano a trovarli, i regali per loro e per il bambino, le risate e gli scherzi, le congratulazioni e gli abbracci, tutto contribuì a rendere ancora più nebuloso ogni ricordo di quella giornata. Quando finalmente si coricò a letto, accanto a Rinoa che lo avvertiva che sperava di non svegliarlo per dar da mangiare al piccolo, si accorse che l'unica cosa di cui si rendeva effettivamente conto era che il suo desiderio si era realizzato. La sua compagna e suo figlio erano a casa, le notti solitarie contando le ore che li separavano erano finite, e il respiro di Rinoa contro il suo petto si faceva più pesante, come sempre, perché finalmente poteva tornare ad addormentarsi abbracciato a lei.

Adesso iniziava davvero la vita che aveva desiderato così ardentemente in quei giorni lontano da loro. Adesso iniziavano le gioie e i dolori dell'essere papà, le soddisfazioni e le delusioni...e per quanto sapesse che ci sarebbero stati anche i lati negativi, riusciva, nel dormiveglia, a focalizzarsi soltanto su quelli positivi.

Fu solo la mattina dopo, quando Rinoa entrò nella stanza con il bambino in braccio e lo posò sul letto fra loro, che si rese conto di aver già sentito il profumo che aleggiava intorno a suo figlio, che quell'aroma che per lui era fragranza di famiglia aveva iniziato a conoscerlo prima che il piccolo portasse un po' di sconvolgimento in quella casa.

Eppure non riusciva a ricordare dove lo avesse già sentito...

"Lo sai," sussurrava Rinoa distraendolo un attimo dai suoi pensieri, "quando me l'hanno appoggiato accanto, che piangeva ancora, mi sono sentita così...strana..." Rimase in silenzio per qualche minuto, giocando con le mani di suo figlio, prima di continuare, "non riuscivo a credere di averlo davvero tenuto nella pancia in questi mesi...e poi era ancora così rosso...e gli ho contato subito le dita, come hai fatto tu...e non so perché," terminò ridendo, allungandosi a dargli un bacio, "ma quando l'hai fatto anche tu mi sono sentita gonfiare il cuore..."

Lui sorrise, allungandosi verso di lei per darle un bacio, ritrovandole addosso lo stesso profumo che oramai gli era così familiare e prezioso. Non sapeva dire dove lo avesse già sentito, quando avesse iniziato ad amarlo, sapeva solo che lo amava e amava anche lo sbadiglio di suo figlio, che dormiva tranquillo in mezzo a loro...

...e poi la risposta, all'improvviso, mentre strofinava il viso contro la pancia nuda del suo piccino -in ospedale.

In ospedale, quando era entrato nella stanza di Rinoa per incontrare il nuovo arrivato, e aveva aspirato invece dell'odore asettico di disinfettante che si aspettava il profumo di latte, borotalco e olio per la pelle che erano propri del suo bambino. E si rese conto che, per quanto si sforzasse, non riusciva più a ricordare il profumo d'ospedale che odiava.

Per lui, da quel momento, gli ospedali d'inverno avrebbero sempre avuto quel profumo di famiglia.

*****
Note dell'autrice: questa storia nasce dal mio "progetto", chiamato 5000x4 (e penso dovrebbe bastare questo per farvi capire che non dovete pensare a queste raccolte come a chissà che grandi storie, non lo sono né lo saranno, né nelle intenzioni né tantomeno nei fatti). In seguito ad una critica ricevuta nella versione "alfa" ho pensato di provare a scriverne una versione "beta". Ma questo è il limite massimo in cui io posso, allo stato attuale, affrontare il tema della maternità senza far scattare il mio istinto di auto-conservazione. È un tema un po' doloroso e già affrontarlo una seconda volta è stato complicato, se nonostante mi sia impegnata di più il risultato rimane scadente, non si percepisce che la presenza del bambino è il suo fulcro e l'unica ragione per cui questa storia esiste, e sembra che avere un bambino sia tanto semplice...vorrà dire che questa storia rimarrà scadente e io incapace di comunicarne il messaggio e di raccontare cosa significhi tenere un braccio un neonato (non esiste, secondo me, sensazione più semplice e primordiale). Non posso forzarmi oltre.
Mi scuso anche del fatto che ci siano ben poche differenze rispetto alla prima versione (stesso motivo: non so affrontare questo tema diversamente senza farmi del male. E rifarla daccapo era un suicidio). Ho cercato di eliminare ciò che poteva distogliere dal nucleo centrale (Squall-bambino-ospedale-profumo) e ho comunque sfasato le 5000 parole. Scusatemi anche per questo, spero se non altro vada meglio.
E niente, tutto qui. Se le impressioni non dovessero essere diverse, non commentate se non ne avete voglia, terrò buono quel che mi avete detto la prima volta.
Anche questa one-shot è ispirata alla Writing Community 52 flavours. Tutto è spiegato nel mio blog, come al solito, e come sempre ringrazio i miei beta-reader e in particolare Tomislav che ha corretto questa. Risposte ad eventuali commenti e critiche saranno postate sul mio blog Wide Awake, per non occupare spazio qui.

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