Il Bambino Biondo by elaisa
Summary: È freddo, ma lui non lo sente.
Non più.
Nonostante questo, trema, anche se non ha importanza.
Non l’ha mai avuta.
Gli viene da piangere, ma non se lo concede.
Non se lo può permettere.
Deve essere forte, anche se il cimitero fa paura.
Non può considerarsi un bambino.
Non sente il grido straziante della solitudine che lo ingabbia in una prigione di vetri rotti.
Non sente più niente.
Non gli importa più niente.
Lui non doveva esistere.

Categories: Anime e Manga > Death Note Characters: Mello
Generi: Malinconico, Riflessivo
Linee temporali: Nessuno
Avvertimenti: One-shot, Spoiler
Challenges: Nessuno
Series: Nessuno
Chapters: 1 Completed:Word count: 6065 Read: 15457 Published: 12/10/07 Updated: 12/10/07
Story Notes:
Storia vincitrice del primo concorso su Death Note indetto su Writers Arena.

1. Il Bambino Biondo by elaisa

Il Bambino Biondo by elaisa
Author's Notes:
Ringraziando Serena e Maja che mi hanno betato (più Maja che Serena, in vero XD), la posto, sperando che gradiate la storia più elaborata che io abbia mai scritto. *__*
C’è un bambino biondo che gioca nel prato.
È piccolo e non capisce perché nessuno giochi con lui; non sa perché il papà e la mamma preferiscano passare tutto il loro tempo ad ascoltare Samuil che suona il violino.
Quindi lui gioca da solo, andando tutto il giorno in bicicletta nel giardino, a guardare attraverso la finestra: vede la mamma e il papà che giocano con Samuil, lo ascoltano, a volte lo coccolano, altre lo rimproverano.
Lui li guarda, poi, quando pensa che sia abbastanza, riparte con la bicicletta a girare in tondo in mezzo all’erba per tutto il pomeriggio, pensando che la sua famiglia è davvero bella...
Peccato che lui, all’interno di quel meraviglioso quadretto, non può essere ammesso; può solo viverlo dall’esterno, dal giardino che è diventato il suo unico amico – insieme alla bicicletta – e cercare di capire perché Samuil è il figlio più amato.
Ma non ci può riuscire; lui è troppo piccolo.

***

I coniugi Ioann e Svetlana Keehl non avevano mai voluto generare più figli di quanti se ne potessero permettere.
Era un discorso meramente egoistico, ma entrambi erano coscienti di quanti soldi servissero per saziare gli inevitabili vizi che i figli acquisivano durante la crescita, quindi avevano deciso di basarsi su quel rapido calcolo dei soldi disponibili per decidere quando e se avere un bambino.
A Ioann sarebbe piaciuto avere una famiglia molto numerosa, in verità, ma i suoi lavori non erano pagati tanto da potersi permettere tre o quattro mocciosi per casa – e mantenere anche una moglie abituata ad un determinato tenore di vita.
Inoltre, Ioann Keehl, nell’aver conosciuto Svetlana Egòrovna, aveva segnato, prima ancora di pensare a mettere su famiglia, il numero dei figli che avrebbero avuto.
Svetlana Egòrovna, sua moglie, era stata una donna ricca, abituata ad uno stile di vita dispendioso e consumistico; si erano conosciuti ad una festa dell’alto borgo, quando anche lui poteva ancora farne parte – ventenne scapolo, con un salario abbastanza alto per un giovane ragazzo che da poco si era messo in proprio – e, se non era stato un colpo di fulmine vero e proprio, sicuramente era stata attrazione a prima vista.
Com’era bella la sua Svetlana…
Alta e snella, sinuosa e ben fatta – come se fosse stata scolpita nel marmo – con capelli biondi lisci, lunghi fino alla schiena, e due occhi azzurri – così azzurri – che sembravano richiamare i colori del cielo…
Quella sera, a quella festa dove partecipava insieme ai suoi genitori, lei era la donna più bella del creato.
E questo, Ioann non aveva smesso di pensarlo nemmeno dopo dieci anni di matrimonio.
Lui era un uomo semplice, nato e cresciuto in una famiglia povera, che aveva lavorato sodo per fare quel poco di strada che era riuscito a percorrere con le sue sole forze; Svetlana, al contrario, era una donna austera, abituata ai soldi e agli sprechi, con una dignità tale che difficilmente avrebbe potuto chinare il capo di fronte a qualcuno – erano gli altri che dovevano abbassare lo sguardo di fronte a lei, tanto metteva in soggezione la gente.
Ma si amavano, nonostante le diversità nel carattere e il diverso ceto sociale, per cui avevano deciso di andare contro al volere dei genitori di lei, ancora più superbi della loro figlia, e sposarsi.
I Signori Egòrovna non avevano appoggiato – né avevano mai ben visto – quell’unione, per cui Svetlana fu diseredata per inseguire e coronare il suo sogno d’amore; Ioann si rimboccò le maniche, lavorando così tanto da tornare a casa distrutto, ma, dopo un anno in cui Svetlana non aveva rinunciato a nessuno dei suoi sprechi, spendendo i soldi che Ioann guadagnava, il loro tenore di vita si abbassò talmente tanto che dovettero vendere la loro meravigliosa casa in montagna – il loro primo nido d’amore – e trasferirsi in un modesto appartamento, con un piccolo giardino, appena fuori Ėlista, lasciandosi alle spalle debiti consistenti.
Svetlana, scontenta della casa e della vita che Ioann la costringeva a fare, si rifiutò categoricamente di trovare un lavoro per contribuire alle spese della casa e al prosciugamento dei debiti, incolpando solo e soltanto il marito per la loro caduta in rovina.
Ioann, che continuava ad amare la moglie pur non facendosi cieco di fronte ai suoi difetti, chiuse l’azienda dichiarando fallimento e trovò un paio di lavori come semplice operaio, che gli permisero, nell’arco di un altro anno – un anno di privazioni e risparmi – di riequilibrare le spese di Svetlana con le sue entrate.
Fu in quel momento che i coniugi Keehl affrontarono la questione bambini; anche in quello, Svetlana fu irremovibile: uno e uno soltanto.
I bambini non le piacevano – troppo fastidiosi e troppo dispendiosi - ma per amore di quel marito che tanto aveva fatto per restituirle un tenore di vita più conforme a quello che aveva in passato, avrebbe fatto quel sacrificio; non promise a Ioann che sarebbe stata una madre affettuosa, al contrario lo informò di quanto scarso fosse il suo istinto materno, ma Ioann fu ugualmente felice di ricevere un “sì” come risposta.
E, nello stesso anno della ripresa economica della famiglia Keehl, pochi mesi dopo, fu concepito il loro primogenito a cui fu dato il nome di Samuil.

***

Il bambino biondo, quando viene la sera, scende dalla sua bicicletta e si siede sui gradini davanti all’ingresso.
Aspetta che il papà gli porti da mangiare e di solito se ne ricorda sempre, ma è capitato che lo dimenticasse.
Lui non ha capito perché la mamma non lo voglia in casa, però va bene lo stesso, perché lui può mangiare le cose che lei cucina, le stesse che mangia anche Samuil.
Quando il papà arriva e gli consegna la cena, lui ci prova a dirgli qualcosa, ma il papà torna subito in casa e chiude la porta a chiave.
Lui prende il piatto e va a mangiare nella casetta di legno, guardando dalla finestra la sua bella famiglia che, intorno al tavolo, consuma la cena: a volte ridono molto, ma lui non può sentire.
A volte la mamma dà a Samuil un dolce al cioccolato; anche lui lo vorrebbe e non capisce perché il papà non glielo porti mai.
Ma ha soltanto tre anni, lui non deve capire.

***

La nascita di Samuil Keehl comportò un nuovo cambiamento nella vita di Ioann e Svetlana.
La donna, che in un primo momento aveva dichiarato di non possedere alcun tipo d’istinto materno, si attaccò al figlioletto con un’ossessione così morbosa che, tutto il resto, sembrò sparire.
Ogni suo pensiero, ogni sua spesa, era tutto rivolto al piccolo Samuil, diventato la luce dei suoi occhi e la ragione della sua stessa vita.
Cominciò ad allontanarsi dal marito, dedicandosi anima e corpo a quello che era il suo bambino, arrivando persino ad impedire a Ioann di prendersene cura, o anche solo di tenerlo in braccio; e, dato che Svetlana non poteva sopportare l’idea di separarsi da suo figlio anche solo per una notte, iniziò a dormire insieme a lui, spedendo il marito a dormire nella cameretta del bambino, che fu dotata, anziché di una culla, di un letto.
Ioann, che amava la moglie al punto da non rinfacciarle mai niente e da non rimproverarla mai – come se qualcuno l’avesse mai rimproverata – si dedicò esclusivamente ai suoi lavori che, sempre più a lungo, lo tenevano lontano da casa – così non vedeva nemmeno la moglie allontanarsi da lui.
Per due anni Svetlana si dedicò solo ed esclusivamente al proprio bambino e per due anni Ioann cercò ogni scusa possibile per non dover rincasare di sera, andando a dormire in un letto vuoto in una casa dove, che ci fosse o no, era del tutto indifferente.
E soffriva talmente tanto che, quando conobbe Elizaveta Kuz'mìc, la sua vita sembrò cambiare decisamente in meglio.
Si conobbero una sera, durante il turno di notte in una cartiera dove Ioann lavorava occasionalmente.
Elizaveta era stata assunta da poco e venne affiancata all’uomo, che ebbe l’incarico di insegnarle le mansioni adatte ad una ragazza della sua età.
Era molto giovane – Ioann non le avrebbe dato più di vent’anni – e notò, con una spontaneità non gradita, che era completamente diversa da Svetlana.
Anche Elizaveta era alta, bionda e snella, ma i suoi occhi, due occhi grandi e scuri come quelli di un cerbiatto, esprimevano una tale dolcezza che lo colpirono direttamente al cuore; diversamente da Svetlana, Elizaveta era una ragazza povera, non abituata al lusso e allo spreco, e non era superba, bensì timida e molto educata.
Quella notte fu dolce con lui e Ioann, certo non abituato a quel genere di femminilità, ne rimase a dir poco affascinato; tornò spesso a lavorare di notte in quella cartiera, e ogni volta che la incontrava non poteva che desiderare di poterle stare accanto ancora e ancora, per ricevere, anche se da una completa estranea, quel calore femmineo che Svetlana non gli aveva mai dato.
Intanto suo figlio cresceva, somigliando sempre più alla madre sia caratterialmente che fisicamente; maleducato e viziato, era disposto solo ad ascoltare i rimproveri di Svetlana, senza prestare la benché minima attenzione a quelli del padre, al quale non riconosceva la minima autorità.
Una sera, turbato oltre ogni dire per una nuova offesa subita dal figlio, Ioann uscì di casa e si diresse in città, cercando un posto dove potersi ubriacare per dimenticare l’assurdità della sua vita, che non era affatto come l’aveva sognata.
Fece un giro per la città, osservando le persone che camminavano per le strade, quando sentì una vocina timida chiamarlo da lontano; rimase sorpreso: non conosceva nessuno ad Ėlista.
Il suo stupore aumentò, quando vide che a chiamarlo era stata Elizaveta.
Andarono in un caffè, sedendosi a parlare e lui notò che la ragazza era esattamente come l’aveva immaginata: timida, dolce, cortese e ben educata, tutto il contrario di sua moglie, non c’era che dire.
Elizaveta aveva il potere – e l’aveva avuto sin dalla prima volta che l’aveva vista – di metterlo a suo agio, di incantarlo con le parole e la tonalità melodiosa della sua voce, e farlo sentire accolto all’interno del proprio mondo.
Ioann non avrebbe saputo dire se il sentimento che provò quella sera fosse amore, ma dopo quattro mesi passati a frequentarsi di notte, in clandestinità, lo ammise con se stesso prima di ammetterlo di fronte alla ragazza stessa.
L’amore che provava per Elizaveta era diverso da quello che provava per Svetlana; soltanto dopo, quando le perse entrambe, capì che ciò che provava per la moglie era una sorta di timore reverenziale, che il concetto d’amore era diverso da come loro lo avevano sempre vissuto e che lui, seppure con ritardo, l’aveva scoperto con Elizaveta, che gliel’aveva insegnato guidandolo per mano.

***

Il bambino biondo, quando ha finito di cenare, non è autorizzato a bussare alla porta per restituire il piatto; deve appoggiarlo sui gradini e attendere che il papà venga a riprenderlo per metterlo nel lavello.
A volte il papà lo dimentica, così il piatto resta lì fino al mattino; viene preso d’assalto dalle mosche e, se il papà non lo lava prima di uscire, per pranzo può capitare che mangi nel piatto sporco – o che non mangi affatto.
Lui, dopo, torna nella casetta di legno ad osservare la sua bella famiglia dalla finestra; se è Inverno si riuniscono tutti intorno al fuoco e Samuil suona il violino per compiacere i genitori.
D’Estate, invece, escono tutti in giardino – il suo giardino – e si siedono tutti insieme a guardare le stelle; lui non capisce perché non può andare a sedersi sul prato con loro, ma va bene lo stesso.
A volte, se c’è la luce della luna, il papà si volta guardingo verso la casetta di legno e gli fa “ciao” con la mano: lui è felice di questo.
La mamma e Samuil, invece, non si girano mai a guardare nella sua direzione.
Lui non sa perché, però sa che non deve capirlo.
Ha solo tre anni, dopotutto.

***

Più il rapporto tra Ioann e Svetlana si logorava, più la relazione extraconiugale tra lui e la dolce Elizaveta progrediva nel migliore dei modi.
Un anno dopo il loro primo incontro Elizaveta annunciò, con timore e lacrime, di essere rimasta incinta.
Un errore che avrebbe distrutto il matrimonio tra Ioann e Svetlana; un errore che, prima, avrebbe condotto Ioann in uno stato apatico e disperato, ma che, in quel momento, lo riempì così tanto di gioia che, senza pensarci due volte, pensò di lasciare la moglie per trasferirsi con l’amante e vivere con lei la vita che aveva sempre sognato.
Avrebbe fatto di Elizaveta la sua “Signora Keehl”, colei che era degna di tale nome.
Ma ogni cosa è destinata a finire, anche la felicità.
Ioann aveva deciso di lasciare Svetlana; non ci sarebbero stati rimpianti, in quello, soltanto la gioia di sentirsi nuovamente libero.
Gli dispiaceva per il figlio, ma era sicuro… Dannatamente sicuro, che non avrebbe sentito la sua mancanza – così piccolo e già così somigliante alla madre, che il pensiero di lasciarlo, a volte, era quasi una consolazione.
Ma la stessa sera in cui si era promesso di parlarle, ricevette una chiamata dall’ospedale in cui lo informavano che Elizaveta era ricoverata presso di loro.
Ioann si precipitò fuori per andare al suo capezzale e, quando arrivò, il medico lo informò di una malattia in stadio avanzato che avrebbe compromesso la sua salute e quella del bambino, a meno che non venisse fatta una scelta.
Per quanto avesse tentato di farla ragionare, Elizaveta – la sua dolce, piccola Elizaveta, colei con la quale aveva visto il suo futuro – scelse di salvare il bambino.

***

Il bambino biondo, a volte, viene portato dal papà al cimitero ma solo quando la mamma e Samuil sono fuori e non possono vederli insieme.
Si siedono davanti ad una lapide e quelle sono le uniche occasioni in cui il papà gli parla.
Gli racconta di una donna che si chiamava Elizaveta, morta per dare alla luce un bambino biondo bellissimo, che si chiama Mihael, come lui.
Lui non capisce perché il papà gli racconta quello, ma dopotutto come potrebbe?
È uno stupido moccioso di tre anni.

***

Svetlana era così sicura di se stessa che non avrebbe mai sospettato che suo marito potesse intrattenere una relazione extraconiugale.
Tradirla, si diceva, non sarebbe stato possibile, perché lei era una donna bellissima e, nonostante la gravidanza, ancora piacente.
Le capitava spesso, quando andava a spasso col suo bambino, che molti uomini tentassero di avvicinarla per farle la corte, ma lei non era interessata; aveva Samuil, il resto non contava nulla.
Quando, quella sera – il giorno dopo il quarto compleanno di Samuil - suo marito rientrò in casa piangendo e con un fagottino in braccio, tutte le sue convinzioni consolidate negli anni, crollarono come un castello di carte.
Non capiva – non voleva capire – cosa fosse accaduto, perché suo marito fosse tornato a casa portando con sé un figlio che non avrebbero potuto mantenere – un figlio non suo; cercò di domandarlo a lui, ma Ioann si chiuse nella sua stanza, trincerandosi dietro un silenzio fatto di lacrime e vagiti del bambino.
Solo il giorno seguente, quando Samuil era all’asilo, lui ebbe il coraggio di rivelarle ciò che era accaduto.
Elizaveta, la sua amante, era morta per dare alla luce quel bambino biondo – quel bastardo – e lui se l’era portato a casa, nella sua casa.
E’ figlio mio.” Le aveva detto. “Che ti piaccia o no, questo è anche frutto dei tuoi sbagli.
Svetlana non era mai stata una donna umile; non era disposta a riconoscere come un suo sbaglio un tradimento da parte del marito.
Inequivocabilmente, chi si era intrattenuto con una donna dalla dubbia dignità, era stato lui, marito fedifrago, il più indegno degli uomini; avrebbe davvero voluto poterlo allontanare dalla loro casa, divorziare e far mantenere con gli alimenti sia lei che il bambino, ma non lo fece – avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, altrimenti.
Né Ioann pensò di andarsene da quella casa, perché, per quanto il ricordo di Elizaveta lo spronasse a prendere Mihael – così Elizaveta aveva chiamato il bambino - e traslocare, lui aveva anche Samuil, che, volente o nolente, era figlio suo.
Aveva delle responsabilità, almeno economiche, sia verso di lui sia verso la moglie, che non aveva intenzione di non rispettare.
Ma Svetlana che, dall’alto della sua immodestia, continuava a credere di essere nel giusto, gli fece una promessa:
Pagherai caro il tuo tradimento, se intendi restare. E ancor più caro lo pagherà il bastardo che hai generato.

***

Il bambino biondo, di notte, si nasconde sotto le lenzuola del suo letto, dentro la casetta di legno: ha paura del buio.
Lui non sa perché non gli sia concesso vivere dentro la casa della sua famiglia, e non sa neppure perché, al contrario, Samuil venga viziato.
La mamma fa sempre tanti regali a suo fratello, mentre gli unici che riceve lui sono pochi e fatti soltanto dal papà: la mamma non gli ha mai rivolto la parola se non per insultarlo.
Non sa perché deve restare nella casetta di legno di notte, e giocare nel prato di giorno, da solo, con la bicicletta che gli ha regalato il papà per il suo compleanno.
Lui non lo sa perché nessuno lo abbraccia mai e se il papà lo fa è sempre quando la mamma non li vede, come quando vanno a trovare Elizaveta.
Non deve capire perché il papà non può stare con lui e deve limitarsi a vederlo quando in casa non c’è nessuno; lui non deve capire perché il papà, che gli vuole bene, non può nemmeno parlargli se ci sono la mamma e Samuil.
Il bambino biondo, però, è stanco di far finta di non capire.
Ha solo tre anni e, sebbene ci siano molte cose che gli restano oscure, lui capisce fin troppo bene che la mamma non gli vuole bene.
E capisce che nemmeno Samuil gliene vuole.
Lo guardano dall’alto in basso e a volte capita che la mamma gli urli contro, anche se non ha fatto niente.
La mamma grida tanto – sempre, quando s’incrociano per sbaglio -, dicendogli che è un “bastardo” e che non sarebbe dovuto nascere.
Lui non sa perché la mamma dice così, però va bene lo stesso.
Perché, quando succede, lui ha il papà che va a consolarlo nella casetta di legno, a notte fonda – quando tutti dormono e loro possono essere liberi di essere padre e figlio; il papà lo abbraccia e gli chiede scusa per tutto.
Lui non sa di cosa deve scusarsi, ma se l’abbraccia lui è contento: sono così poche le volte in cui riceve dimostrazioni d’affetto…
Il bambino biondo ha soltanto tre anni, però capisce bene cosa significa essere odiati; a volte, anche lui odia la mamma e Samuil, perché loro non gli vogliono bene e vorrebbero che anche il papà non gliene volesse.
Lui non vede l’ora di crescere per potergli dire che ha sempre capito.

***

Le cose erano andate sempre peggio dalla morte di Elizaveta.
Salvo nei momenti in cui Samuil era presente in casa, Ioann e Svetlana non facevano che litigare – ad ogni ora del giorno e della notte; litigavano così tanto che, a volte, lui rimpiangeva di non essersene andato portando via con sé Mihael.
Svetlana su Mihael era stata irremovibile: non lo voleva in casa e non voleva nemmeno trovarselo tra i piedi una volta cresciuto.
Ioann fece in modo di tenerlo fuori dalla sua vista, ma il bambino era piccolo e capitava – spesso – che si svegliasse durante la notte piangendo per la fame.
Lui con i bambini non era per niente bravo; come avrebbe dovuto gestire un neonato di poche settimane?
Come avrebbe potuto gestirlo, quando sarebbe cresciuto?
Ioann si sentiva il cuore sanguinare dal dolore al pensiero di come sarebbe cresciuto suo figlio, ma del resto, cosa poteva fare?
Lui non era mai stato un uomo forte – chi portava i pantaloni in casa era sua moglie.
Fece il possibile, ma qualsiasi cosa facesse non gli sembrava all’altezza della situazione; soprattutto, qualsiasi cosa facesse e ovunque tentasse di sistemare Mihael, era quasi naturale che Svetlana – regina della casa – e Samuil – piccolo ed altezzoso principe – capitassero nelle sue vicinanze, arrivando inevitabilmente a vederlo.
Ed era altrettanto inevitabile che, alla sua vista, Svetlana diventasse isterica; iniziava a lanciare oggetti e soprammobili contro il marito, urlandogli contro parole che, nella sua fierezza, mai aveva pronunciato, e lui, Ioann, non sapeva come ribattere, quindi taceva.
Sapeva perfettamente che un bambino non era una cosa che si poteva nascondere con facilità e l’unica soluzione che gli sovvenne alla mente fu quella di far costruire una casetta di legno in giardino – una casetta piccola, come quelle costruite sugli alberi – dove poterlo sistemare e accudire senza la paura dell’isterismo della moglie.
La casetta fu pronta in tre settimane e, da quel momento, Ioann non fece mai più entrare Mihael in casa.
Vi sistemò la culla e i giocattoli, ed egli stesso vi passò spesso la notte per evitare che il bambino piangesse troppo, disturbando il sonno del primogenito e della moglie.
E durante le notti trascorse nella casetta di legno in giardino, insieme a quel bambino che somigliava sempre più alla sua Elizaveta, Ioann pregava.
Pregava perché suo figlio potesse perdonarlo per quello, un giorno.


***

Il bambino biondo gioca nel prato.
Gira in bicicletta tutto il giorno, andando in tondo lungo il perimetro del giardino, canticchiando tra sé una canzone che ha sentito suonare a Samuil con il violino.
A volte, si sofferma a guardare la sua bella famiglia attraverso la finestra.
La sua mamma grida tanto contro il papà, e anche Samuil lo fa spesso; il papà, invece, non grida mai.
China spesso la testa, sottomesso dagli strilli, e non replica mai; lui ha solo tre anni, ma capisce bene che la mamma odia anche il papà.
Lui non può sentire cosa dicono; deve restare fuori, a giocare da solo con la sua bicicletta.

Quel giorno, però, è diverso: la mamma è davvero molto, molto arrabbiata.
Lui ha visto che lei ha lanciato dei piatti contro il papà e ha visto anche che il papà non si è spostato, ricevendo il piatto sulla schiena.
C’è stato rumore di cocci infranti, un rumore che l’ha fatto tremare.
Il bambino biondo ha paura per il suo papà e, se potesse entrare in casa, lui proverebbe a salvarlo.
Ma entrare in casa non gli è permesso: deve restare nel giardino e dormire nella casetta di legno, cercando di non farsi vedere né dalla mamma né da Samuil.
Lui ha solo tre anni, in fondo, non può fare molto per il suo povero papà.

***

Dopo che Mihael fu sistemato in giardino, Svetlana cercò di ritrovare la sua pace interiore dedicandosi alle spese più folli; sperperava tutti i soldi guadagnati dal marito, arrivando addirittura ad incolparlo di non guadagnare abbastanza per le sue esigenze e quelle del primogenito, quando le bloccavano la carta di credito.
Mihael non era, ovviamente, contemplato; viveva con gli avanzi e con i vestiti smessi di Samuil, che Ioann andava a cercare nelle vecchie scatole in garage – ovviamente senza farsi notare dalla moglie, che avrebbe sicuramente avuto da ridire.
Litigate e spese, che avevano indebitato nuovamente Ioann, si susseguirono senza sosta, fino a quando Samuil ebbe compiuto i sette anni e fu abbastanza grande da capire che qualcosa, nella sua famiglia, non andava, e che il bambino che giocava con la bicicletta in giardino era qualcuno da evitare.
Insegnamenti di Svetlana; Ioann avrebbe davvero voluto che i suoi figli potessero giocare insieme come fratelli, ma quello non era possibile.
Non con quella moglie e non con quel figlio, che pendeva dalle labbra della madre come le api da un favo di miele; ed ogni giorno… Ogni singolo dannato giorno quel bambino somigliava sempre più alla moglie per il cipiglio altezzoso con il quale lo trattava.
Quando Mihael compì tre anni, non gli fu concesso di fare la festa di compleanno con gli amichetti dell’asilo; il cuore di Ioann sanguinò così tanto che, il pomeriggio seguente, tutta la frustrazione e la rabbia che aveva represso per tre anni venne alla luce, scatenando il finimondo in casa Keehl.

***

Il bambino biondo ha visto la mamma uscire di corsa, trascinandosi dietro Samuil in lacrime.
Lui non capisce cos’è successo, ma non gli importa; dalla finestra lui vede il papà che piange e questo lo fa soffrire.
Vorrebbe entrare in casa per dirgli che gli vuole bene e che non deve piangere se la mamma e Samuil sono cattivi, però non gli è permesso.
Lui sa cosa succede se entra: la mamma lo prende per i capelli e lo picchia forte – l’ultima volta gli ha fatto uscire il sangue dal naso.
Ma lui non ha pianto e ha detto alla mamma che la odiava.
La mamma, quella volta, gli ha detto tante cose cattive, anche che lui non è figlio suo; lui non ha pianto lo stesso, però.
Perché lui, quando succede, ha il papà che, a notte fonda, quando nessuno li vede, va a consolarlo e gli dice che è il suo amato bambino.
Lui vorrebbe che anche la mamma e Samuil gli volessero bene, ma non è possibile, quindi gli basta il bene del papà.

Quel giorno, però, è diverso.
La mamma se n’è andata con Samuil e il papà continua a piangere dentro casa.
Lui non capisce bene cos’è successo, però sa che non c’è rimedio.
Ha solo tre anni e si sente davvero impotente di fronte al dolore dei grandi.

***

Svetlana, dopo il violento – forse il più violento – litigio mai avuto, se n’era andata di casa con Samuil.
Andava troppo forte.” Aveva detto il conducente dell’auto con cui avevano avuto un incidente. “Non ho fatto in tempo a scansarli.
E lui ci credeva, perché conosceva la rabbia della moglie e i suoi modi di sfogarla.
L’ospedale aveva chiamato molte volte prima di ottenere risposta, e lui si era precipitato fuori di casa ormai dimentico di tutta la rabbia provata qualche ora prima; aveva chiesto anche a Mihael se voleva andare con lui, ma il bambino non aveva voluto ed era rimasto a giocare nel suo giardino con la bicicletta.
E così…
La seconda giornata più lunga della sua vita era terminata esattamente com’era finita la prima: con la scomparsa di una persona cara.

***

Il bambino biondo sa che quel giorno è successo qualcosa di brutto: la mamma non è rientrata e il telefono di casa ha squillato ininterrottamente finché il papà non ha risposto.
Lui non sa cos’è accaduto e sospetta che nemmeno il papà lo sappia; però, appena ha alzato la cornetta del telefono, ha cambiato espressione e si è precipitato fuori senza nemmeno prendere la giacca, andando via con la macchina.
Dopo un po’ è tornato indietro e ha chiesto anche a lui se volesse andare, ma lui non voleva vedere la mamma perché lei lo odia.
E’ troppo sperare di non essere picchiati?
Allora ha aspettato a casa, giocando fino a sera con la bicicletta; all’ora di cena si è seduto sui gradini in attesa del piatto, ma nessuno gli ha portato da mangiare.
Va bene lo stesso: lui è abituato a digiunare, di tanto in tanto.

Ma quel giorno è diverso.
Digiuna perché in casa non c’è nessuno, e lui crede che sia successo qualcosa alla mamma o a Samuil; spera di no perché, sebbene li odi, loro sono sempre parte della sua bella famiglia.
Il papà, poi, ne soffrirebbe davvero troppo.
Il bambino biondo sospira, rintanandosi dentro la sua casetta di legno.
Ha solo tre anni, ma a volte pensa che, se morisse, nessuno piangerebbe la sua scomparsa – e allora potrebbe riposare in una bella tomba di pietra, come quella di Elizaveta.


***


Epilogo.


Piove.
Pioggia fredda e scrosciante che cade dal cielo nell’apice del temporale, che si abbatte sulle lapidi di marmo e di pietra creando un suono secco e, a tratti, inquietante.
A lui non importa.
Seduto per terra in mezzo al fango viscido, nel cerchio creato da quattro lapidi in pietra piantate nel terreno, lascia che la pioggia torrenziale si riversi anche su di lui, facendogli male sul viso e sulle mani.
È freddo, ma lui non lo sente.
Non più.
Nonostante questo, trema, anche se non ha importanza.
Non l’ha mai avuta.
Gli viene da piangere, ma non se lo concede.
Non se lo può permettere.
Deve essere forte, anche se il cimitero fa paura.
Non può considerarsi un bambino.
Non sente il grido straziante della solitudine che lo ingabbia in una prigione di vetri rotti.
Non sente più niente.
Non gli importa più niente.
Lui non doveva esistere.

Non c’è stato un funerale e, se c’è stato, lui non vi ha preso parte; era così stanco di tutto quello, di quella vita non richiesta che gli si ritorceva contro giorno dopo giorno, che è scappato, lasciandosi alle spalle delle tombe.
Lui non è mai stato un bambino, ha sempre capito troppo.
Quelle stesse tombe che lo osservano in quel momento, dall’alto della loro decadenza di pietra sbreccata, e che gli ricordano, ogni secondo che passa, di quanto sia stato codardo a fuggire senza aver lottato.
Ma lui non ha mai voluto combattere per una vita che non voleva, perché avrebbe dovuto?
Per sua madre, forse?
Sacrificio umano della sua nascita, donna debole ma subdola, che ha intrappolato suo padre nella rete dell’amor profano per poi lasciarlo da solo, con un bambino da mantenere e un’altra famiglia da assecondare.
Lui ha odiato sua madre; l’ha odiata quando ha capito che era suo il peccato che lui espiava.
Per la sua matrigna?
Donna superba ed altezzosa, regina del niente e della povertà in cui lei stessa, per sua volontà, è affondata, che ha irretito suo padre nella rete della bellezza per poi schiavizzarlo e fare di lui una persona senza un briciolo di dignità.
Lui ha odiato la sua matrigna; l’ha odiata sempre, quando ha capito che era su di lui che lei sfogava le sue repressioni.
Per il suo fratellastro, allora?
Bambino stupido quanto la madre, austero e autoritario, che ha impiccato suo padre nella rete dell’affetto fingendosi buono, quando poteva ricavarne un proprio guadagno, ma arrivando anche ad imitare la madre nel lanciargli contro degli oggetti, quando non c’erano soldi.
Lui ha odiato il suo fratellastro, perché era amato e rispettato e perché viveva in casa, circondato da tutto ciò che lui avrebbe sempre voluto avere.
Di certo non per suo padre.
Un uomo stupido e molliccio, succube del primogenito e della moglie, tanto represso da essersi cercato un’amante che diceva d’amare al punto che sarebbe stato disposto ad abbandonare la sua famiglia legittima; al punto da crescere suo figlio in un giardino, in una casetta di legno, con una vita piena di rimproveri, privazioni e percosse che lo lasciavano stordito per giorni.
Lui ha odiato suo padre e anche adesso, che è seduto davanti alla sua tomba, lo odia; l’ha odiato da quando ha capito che era un uomo della più meschina delle razze: un uomo debole.
Fortunatamente sono morti tutti.
Adesso non deve più vivere nel giardino e nella casetta di legno, non deve più sognare di ricevere un dolce da colei che pensava fosse sua madre, non deve più piangere di notte, da solo, perché ha paura del buio.
Adesso è libero.
Anche se è figlio dell’odio.

Non sa nemmeno perché è andato al cimitero a fare visita a quelle quattro tombe – una più indegna dell’altra di essere messa al cospetto della grazia divina di un cimitero – prima di recarsi nella sua nuova casa – un istituto per bambini orfani con intelligenza superiore alla media.
Forse è andato lì a dire loro che ha sempre capito.
Anche se non ha importanza che lo sappiano, ora che sono morti; non potranno certo restituirgli la sua infanzia.
Forse sentiva il bisogno di far vedere loro come anche Mihael Keehl fosse morto, sepolto sotto l’odio e sotto i vetri, con i quali si è tagliato tante e tante volte.
Lui è rinato come Mello.
Oppure voleva ricordare com’era essere illusi di poter avere una vita migliore di quella che gli era concessa, ricordando in mezzo alla pioggia – dolorosa e appuntita come stiletti sulla pelle nuda - tutto il dolore e la disperazione provati in quei sei anni.
Disperazione derivata dall’illusione accecante di essere amato.
E, man mano che la sua famiglia moriva, lui stava sempre meglio.
Aveva sempre capito troppo.

Fino a tre anni la sua vita era sempre stata come ricoperta da uno strato di nubi oscure che non permettevano al sole di rischiarargli il cammino.
Il giorno in cui suo padre tornò a casa insieme a Svetlana – oh! Quanto piangeva – e gli disse che Samuil era morto, lui poté nitidamente vedere una nube scomparire dal suo cielo.
Sarebbe stato lui il figlio più amato.
Aveva soltanto tre anni, e per tutta la vita non aveva mai messo piede in casa; “Mi ameranno.” si ripeteva. “Mi ameranno come se fossi Samuil.”
Non era andata così.
Lui non doveva esistere, pertanto non poteva essere amato.

Non era potuto ugualmente entrare in casa e non aveva ricevuto l’affetto che Samuil aveva avuto; era rimasto lì fuori, in giardino, a girare in tondo con la sua bicicletta, canticchiando una canzone – l’unica che conosceva – e a chiedersi perché non poteva prendere il posto del suo fratellastro.
Era piccolo, non poteva capire tutto; c’era arrivato dopo, quando aveva compreso che loro lo odiavano quanto lui odiava loro.
Poi era stato il turno di Svetlana.
Mesi passati a piangere e a disperarsi sulla tomba del figlio, un solo giorno per comprendere quanto indegna fosse la sua presenza nel mondo.
Era rimasta da sola a casa, e poco prima lo aveva insultato dicendogli che era sua la colpa se Samuil era morto, ripetendogli che era un ‘bastardo’ e che avrebbe dovuto essere lui a morire.
Lui non aveva battuto ciglio, era abituato a quegli insulti, e, quando si era avvicinato alla finestra, l’aveva vista in cucina – Dio, c’era tanto di quel sangue… - sdraiata scompostamente al suolo e con un coltello in mano.
Un’altra nube che svaniva dal suo cielo, dove iniziava ad intravedersi una luna interamente nera.
Dopo erano venuti il senso di colpa e la disperazione.
Quando suo padre seppellì la moglie, quando suo padre lo accolse in casa, quando anche lui iniziò ad odiarlo, per lui non ci fu altra scelta che la rassegnazione.
E la disperazione derivante dalla morta illusione di essere amato.
Lui aveva sempre capito troppo.

Suo padre gli vomitò addosso ogni colpa che poteva imputargli, compresa la morte di Svetlana e Samuil, e soprattutto quella di Elizaveta.
Suo padre lo accolse in casa per sputargli addosso ogni offesa che aveva subito dalla matrigna per tre interi anni.
Nemmeno lui gli voleva bene – lui che era stato, per molto tempo, l’unico contatto con l’affetto che aveva avuto.
E fu in quel momento che lui seppe di quanto sbagliata fosse la sua esistenza.
Un’altra nube scomparve dall’orizzonte del suo cielo notturno, alla notizia che la sua vera madre era morta per dargli la vita: lui non voleva vivere.

Per quanto gli fu possibile continuò a vivere insieme al padre – che lo usava come valvola di sfogo per il suo dolore – poi decise di scappare e di intraprendere un’altra vita.
L’epitaffio di Mihael Keehl non era mai stato scritto, ma tutti lo conoscevano: “Qui giace un bambino che si nutriva di vite.”
Lui rinasceva come Mello.
Ed un’altra nuvola scura si diradava dal suo cielo; ormai la luna nera era completamente visibile.

Lui non è luce, è buio – sebbene lo tema.
Lui non è vita, è morte – sebbene ne abbia paura.
Lui non è. E tanto basta.
Non doveva esistere.
Ora era tornato.
L’ultima traccia dei nuvoloni neri era scomparsa dal suo cielo con la morte di suo padre, che lui tanto aveva sperato.
L’aveva colto un malore e forse se l’era meritato.
Lui odia. E tanto basta.
Ha sempre capito troppo bene cosa significa essere odiati.

Ora sedeva lì, nel cimitero dove tutte le persone collegate a lui erano morte, in quel giorno di pioggia torrenziale e dolorosa sulla pelle nuda, a sfoggiare di fronte alla loro non esistenza il suo diritto alla vita.
Lui non doveva esistere, ma esisteva; quindi avrebbe vissuto, per ricordare ai loro spiriti cosa significa essere odiati.
Non sente il dolore né il freddo, non sente la solitudine che si abbatte su di lui con la stessa foga della pioggia che cade dal cielo.
E, se anche potesse sentire, non avrebbe importanza.
Non sente più niente.
Non importa più niente.
Lui ha sempre capito troppo, anche che doveva morire.

Gli viene da piangere e, anche se non se lo concede, sa che quelle sono lacrime di gioia, perché quelle persone che tanto l’hanno ferito sono morte – sepolte sotto strati di terreno fangoso, come meritavano – e lui finalmente è libero.
Di vivere, anche se non doveva esistere.
Di capire, anche se ha sempre capito troppo.

Si alza da terra e lascia che la pioggia continui ad infradiciargli gli abiti; rivolge un ghigno alla sua famiglia morta e alla sua vera madre che non ha mai conosciuto - anche se non gli interessa.
Non gli interessa più niente.
Lui è vivo.

Si volta, dando le spalle a quelle tombe che sono il simbolo della sua sofferenza passata – e della sua insofferenza presente – e s’incammina verso l’uomo che lo accompagnerà in Inghilterra, nella sua nuova casa.
Un istituto dove tanti bambini odiati dal mondo e dimenticati da Dio possono vivere in pace.
In quel momento, quando varca il cancello del cimitero per raggiungere Mr Wammy, lui sorride.
Mello è finalmente libero.
End Notes:
Disclaimer: I personaggi della storia non appartengono a me, ma sono di proprietà di Takeshi Obata e Tsugumi Ohba, che ne detengono i diritti. Io non guadagno soldi dalla pubblicazione della storia.
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